L'osteria

Per noi un sogno diventato realtà: un’osteria dove si riscoprono I sapori tradizionali, quelli di un tempo.

La cucina della tradizione è in costante dialogo con il presente; essa rappresenta la Colonna portante su cui sperimentare, interpretare, personalizzare.

Tradizione è profonda cultura e conoscenza del proprio territorio e quindi delle proprie radici.

La ricerca costante in questi anni è sempre stata ispirata al recupero della tradizione orale delle ricette, più antiche, mai codificate per iscritto perché patrimonio tramandato di generazione in generazione senza bisogno di codici, ma proprio per questo fragile al trascorrere del tempo.

I Nostri Piatti

Tanto per cominciare “i nostri piatti“ non sono nostri ma appartengono alla tradizione gastronomica e alla cultura delle genti di questa porzione di Romagna, un tempo non lontano ancora Toscana. Ai piedi del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi Campigna Monte Falterona, in questo territorio di montagna, la piadina romagnola, quella cotta sul testo di terracotta non faceva parte del menu quotidiano delle “arzdore”.

Qui la faceva da padrone il tortello cotto sulla lastra; non vi era famiglia che non possedesse una lastra di pietra arenaria, temprata, perennemente adagiata sulla brace del focolare, pronta a fare il proprio dovere. La penuria di farina di grano tenero e la copiosità di castagneti del crinale appenninico ha fatto si che le castagne e la farina medesima impazzassero in molti piatti della nostra cucina tradizionale: dalla minestra di castagne alle tagliatelle impastate con poca farina di grano tenero e molta farina di castagne, dal castagnaccio alle castagne sotto “guazza“ e via dicendo.

Le erbe spontanee a costo zero davano una buona mano alle massaie nel periodo primaverile; sapientemente raccolte divenivano ripieno per i tortelli , piuttosto che profumate frittate, protagoniste di saporite zuppe.

Qui si mangiavano dai fiori di acacia agli “stridoli”, dalle punte di vitalba al crespigno spinoso, dalle “rosolacce” ( la pianta del papavero non ancora a fiore) alle tenere ortiche. E’ arduo elencare tutti i piatti che compongono il nostro menu che varia con il variare delle stagioni, riappropriandosi dei tempi scanditi dalla natura e, soprattutto le parole non possono per nulla supplire al profumo dei funghi prugnoli sulle tagliatelle fumanti o al cavolo nero che in inverno sobbolle pazientemente insieme al pane secco nella ribollita di matrice toscana.

E già, il pane grande protagonista della cucina dei poveri, simbolo cristiano e per questo mai sprecato ma sempre riutilizzato. Pane secco, bagnato, strizzato e poi condito con l’aceto di vino nella panzanella, cotto con il pomodoro maturo in estate nella pappa al pomodoro tanto cara a Gianburrasca, sposato con le uova nei passatelli, il piatto della Pasqua, quando le galline , dopo la pausa del gelido inverno ricominciavano generosamente la produzione di uova. Un pane che diventa quindi companatico . Qui il pane è “sciocco”, cioè senza sale e chi ce l’aveva il sale... i Papi ma noi eravamo nella Romagna Toscana.